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Alfonso Cuaròn non è Stanley Kubrick, come qualcuno sostiene, considerata la caratteristica comune di attingere ogni qual volta a generi diversi. A 57 anni il regista messicano è passato infatti dalla road movie testosteronica di Y tu mama tambien che nel 2001 lo aveva rivelato internazionalmente, al migliore degli Harry Potter, Il prigioniero di Azkaban. Nel 2006 era ancora ancorato all'avvenirismo dal facile simbolismo di I figli degli uomini. Ma 5 anni fa, infine, eccolo il film di fantascienza come Gravity, che tramutava il realismo infografico delle innovazioni tecniche in un viaggio mistico, un rapporto astratto e sempre più spirituale con lo spazio che circondava il protagonista. Così che ora, a questo suo Roma che fa pensare ad Amarcord e che Cuaròn ritorna a girare in Messico riallacciandosi alla sua famiglia degli Anni Settanta, è difficile negare l’etichetta del capolavoro.
Leone d'Oro a Venezia 2018, invisibile sui grandi schermi delle sale malgrado la sua favolosa fattura, accessibile però subito a milioni di utilizzatori d'internet poiché distribuito da Netflix, Roma è in gran parte un’autobiografia. Filmata da Cuaròn stesso, oltre alla sceneggiatura, in una continua intuizione nell’arte della composizione così mirabile da minacciare talvolta di debordare. Eppure, non succede: quel suo splendido bianco e nero non sbiadisce mai nel formalismo fine a sé stesso. Poiché l’intimità e l’urgenza della visione finiscono sempre per avere il sopravvento sulle preoccupazioni estetiche.
Fatto di piani sequenza, d’inquadrature, di panoramiche, di movimenti laterali di macchina che nel loro rigore appaiono come il frutto di una riflessione accorata, ciò che finisce per risaltare è lo scorrere del tempo. Che scivola all’interno dei personaggi assieme a quello della storia e della società che li contiene, significandoli. Una visione, quella sulla famiglia di una borghesia agiata ma minacciata nella inquieta Città del Messico dell’epoca, che nelle lente carrellate iniziali sembra compiaciuta, quasi esitante di fronte a tanta prolificità dei ricordi. Ma che presto finisce per ancorarsi al fulcro di un'accuratissima osservazione.
Al centro di questa osservazione c'è allora Cleo, la domestica india, l’impassibilità di una figura che non traduce mai rassegnazione: ma che al contrario finirà per accelerare su di sé la visione, fino a trascinare lo spettatore in una crescente partecipazione emotiva. In un film segnato dall’evidente quanto poetico matriarcato, dove la domestica assumerà progressivamente il ruolo della madre, a sua volta abbandonata dal marito.
I rapporti così ben analizzati di Cleo all’interno del nucleo familiare con il quale si confronta il ragazzino Cuaron si specchieranno con gli accadimenti esterni e socio-politici: la rivolta dei contadini espropriati, gli scontri con gli studenti affrontati nelle strade (120 furono le vittime del massacro di Corpus Christi nel giugno 1971), una grandinata, un incendio, un terremoto.
Il tutto un attimo affrettato, quasi sovrastato dalla forza acquisita da una delle sequenze finali: due dei fratelli che si sono avventurati fra le onde del mare scatenato. Cleo non sa nuotare, ma si precipita in loro aiuto. Mentre la cinepresa osserva da lontano, immobile nel tumulto dell'apocalisse, a somiglianza dell’attesa ignara dello spettatore.Roma è un film dominato dall’urgenza della propria richiesta d’amore. Ci si è molto interrogati sulle ragioni di quel titolo, che potrebbe riferirsi a un quartiere della capitale messicana come a delle reminiscenze felliniane. Ed è Cuaròn stesso che ha finito per spiegarcelo: preso alla rovescia, come certe cose del cuore, Roma si legge amor.
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Alfonso Cuaròn is not Stanley Kubrick, as some claim, given the common characteristic of drawing on different genres each time. In fact, at 57 years of age, the Mexican director has gone from the testosterone-fuelled road movie Y tu mama tambien, which in 2001 revealed him internationally, to the best of the Harry Potters, The Prisoner of Azkaban. In 2006, he was still anchored in the futurism of the easy symbolism of The Children of Men. But five years ago, finally, here was the science fiction film Gravity, which transformed the infographic realism of technical innovations into a mystical journey, an abstract and increasingly spiritual relationship with the space surrounding the protagonist. So that now, to this his Roma, which brings to mind Amarcord and which Cuaròn returns to shoot in Mexico reconnecting with his 1970s family, it is difficult to deny the label of masterpiece.
A Golden Lion winner at Venice 2018, invisible on big screens despite its fabulous workmanship, but immediately accessible to millions of internet users as it is distributed by Netflix, Roma is largely an autobiography. Filmed by Cuaròn himself, as well as the screenplay, in a continuous intuition in the art of composition so admirable that it sometimes threatens to overflow. And yet it doesn't: his splendid black and white never fades into formalism for its own sake. Because the intimacy and urgency of vision always end up prevailing over aesthetic concerns.
Made up of sequence plans, shots, panoramas, lateral camera movements which in their rigour appear to be the fruit of a heartfelt reflection, what ends up standing out is the passing of time. It slips inside the characters along with the history and society that contains them, signifying them. A vision, that of the family of a wealthy but threatened bourgeoisie in the restless Mexico City of the time, which in the initial slow tracking shots seems complacent, almost hesitant in the face of such prolific memories. But it soon ends up anchored in the fulcrum of a very accurate observation.
At the centre of this observation, then, is Cleo, the Indian maid, the impassibility of a figure who never translates resignation: but who, on the contrary, ends up speeding up the vision, to the point of drawing the spectator into a growing emotional participation. In a film marked by an evident and poetic matriarchy, where the maid will progressively take on the role of the mother, in turn abandoned by her husband.
Cleo's well-analysed relationships within the family unit with which the young Cuaron is confronted are mirrored by external and socio-political events: the revolt of the expropriated peasants, clashes with students in the streets (120 were the victims of the Corpus Christi massacre in June 1971), a hailstorm, a fire, an earthquake.
All of this is rushed, almost overpowered by the strength gained from one of the final sequences: two of the brothers venturing out into the waves of the raging sea. Cleo cannot swim, but rushes to their aid. While the camera observes from afar, motionless in the tumult of the apocalypse, in the likeness of the spectator's oblivious wait.Roma is a film dominated by the urgency of its own plea for love. There have been many questions about the reasons for the title, which could refer to a district of the Mexican capital or to Fellini reminiscences. And it is Cuaròn himself who ended up explaining it to us: taken upside down, like certain things of the heart, Roma is read amor.
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