Conoscendo l’autore di Funny Games, Il nastro bianco o Amour era logico diffidare dall’apparente ottimismo del titolo: la crudele ma razionalmente umana lucidità dello sguardo, il profumo ambiguo del suo umorismo nero devono mantenersi inalterati nel cinema moderno.
Non è che la storia e le intenzioni di Happy End contraddicano quest’esigenza. Isabelle Huppert è alla testa di un’industria del nord della Francia che sta cedendo parte del capitale a causa dell’inadeguatezza del figlio. Suo fratello divorziato (Mathieu Kassovitz) sta riavendo la figlia avuta nel matrimonio precedente: Eva, la biondina dallo sguardo trasparente, che si esercita sul suo criceto per verificare le possibilità letali degli antidepressivi usati dalla madre. Cosi che, quando quest’ultima è annunciata gravissima all’ospedale, qualche idea lo spettatore inizia a farsela… Sotto gli occhi del patriarca immobilizzato in carrozzella (Jean-Louis Trintignant, di gran lunga il personaggio più convincente) ecco costruirsi allora il microcosmo di una emblematica, ricca e decadente famiglia borghese: del tutto ignara, nella propria dissoluzione, del dramma autentico dei migranti, ammassati attorno al contiguo porto di Calais.
Tutto chiarissimo: se non fosse che la progressione drammatica dettata dal settantacinquenne maestro austriaco si architetta con qualche fatica. Con, ovviamente, lampi d’ingegno, e un finale mirabile: ma una sceneggiatura da affinare, un montaggio che andrebbe forse rivisto, qualche sequenza eccessivamente protratta.