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GROUNDING – GLI ULTIMI GIORNI DI SWISSAIR
(GROUNDING)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 marzo 2006
 
di Michael Steiner e Tobias Fueter, con Hanspeter Müller-Drossart, Jürg Löw, Gilles Tschudi (Svizzera, 2005)
 
La Svizzera non avrà il suo Spielberg, e GROUNDING non è ancora il JFK di Oliver Stone; ma questa cronaca del crollo di uno dei nostri miti più tenaci è un film che sarà ricordato. Perché potrebbe segnare una svolta nel nostro cinema: verso formule anche spettacolari, o quella “qualità popolare” fortemente auspicata da chi di recente, Nicolas Bideau in particolare, è subentrato a reggere il destino (e la borsa) di un cinema nazionale (eventualmente) più consono alla propria epoca. In contrapposizione al volare basso, riservato e riflessivo di quello “autoriale”, degli Alain Tanner e Goretta ma anche dei più visionari Daniel Schmid o Fredi Murer che ci aveva reso identificabili, se non proprio celebri, oltre il nostro orticello. Un cinema divenuto, forse, insipidamente calvinista e autopunitivo: quando l'ispirazione artistica, o l'urgenza dei temi è venuta a mancare. Un film è un ibrido situato all'incrocio di vari cammini, l'intuizione artistica e la ricreazione spettacolare, l'aria che tira e il calcolo imprenditoriale: che va quindi “visto”; anche perché caro. Se amate la formula, GROUNDING rappresenta la ricetta ideale per cinema asfittico, 200'000 spettatori in tre settimane; ma essendo tutt'altro che approssimativo o volgare. Tra i buoni ed i cattivi un po' sbrigativamente divisi nel film “la gente saprà benissimo distinguere: il grounding si è prodotto perché Moritz Suter voleva salvare Crossair, il Consiglio Federale la propria industria aeronautica, le banche investire in Crossair ma non in Swissair; e Mario Corti, anche se superato dagli eventi, il solo a lottare per tenerla in vita. Ma non avrei mai pensato che da una storia che si svolge in gran parte nelle riunioni dei consigli di amministrazione e negli uffici delle banche si potesse trarre un racconto cosi appassionante”.

Sono tutte parole di René Lüchinger, autore del libro del 2001 dal quale sceneggiatori evidentemente determinanti come Michael Steiner, Tobias Fueter e compagni hanno tratto il film. Nella sorpresa dello scrittore è racchiuso il segreto della riuscita di una cronaca forzatamente riassuntiva (che lo scrittore dichiara comunque di aver certificato con almeno due testimonianze dirette) ma che non ha nulla di pedante. Dopo il successo del discutibile MEIN NAME IST EUGEN, l'ex punk di Rapperswil Michael Steiner è andato ad ispirarsi dalle parti giuste, come quella dell'arte formidabilmente disinibita e dinamica del montaggio della serie televisiva americana “24 ORE”. Nella quale ha fuso spezzoni di attualità autentica con un mosaico di personaggi inventati in diverse fiction; ben diretto attori che trasformano il Marcel Ospel dell'UBS in un dottor Mabuse, probabilmente esagerato ma drammaturgicamente ineccepibile. Un impasto spettacolare che finisce per spiegare e significare trame e strategie politico-economiche altrimenti astratte. Un surplus squisitamente cinematografico che traduce un guazzabuglio ancora tutto da districare in una riflessione più generale ed in definitiva importante: quella su un paese che nella debolezza e l'opportunismo del potere economico e politico, nella presunzione anestetizzata dal lungo benessere fatica più del dovere ad adeguarsi al proprio tempo.


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