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Di LA STANZA DEL FIGLIO sappiamo già tutto, anche perché il film circola in Italia da diverso tempo. O crediamo di saper tutto; perché la disdicevole abitudine di raccontare di tutto e di tutti fa si che arriviamo ormai davanti agli schermi senza un minimo di disponibilità. Non tanto per abbandonarci alle emozioni; ma per conservare la possibilità di guardare per un istante all'interno di noi sé stessi.
L'ultimo, questa volta veramente nuovo Moretti inizia in un modo che potrebbe anche essere il solito: con l'amato Nanni che fa jogging; e pone il suo sguardo ironico, affettuoso e distaccato sugli arancioni che sfilano con i campanellini hara krishna. Ma, lo comprendiamo subito, non è della solita "morettitudine" che si tratta: i siparietti delle sedute dal nostro psicanalista (era una vita, dice Moretti, che desideravo passare dall'altra parte...) non sono tanto fatte per far ridere. Ma per approfondire, delineare, i personaggi, l'ambiente, le psicologie. È una prima parte leggera, esplicativa, quella dedicata alla presentazione della famiglia allegramente piccolo-borghese (qualcuno dice fin troppo) che è al centro del film: come un piccolo, disinvolto ventaglio esistenziale che si spalanca nella sua normalità. E quei piccoli tocchi di umorismo, deliziosamente delicati, sfruttano ciò che ci si aspettano da lui, servono a far passare un messaggio che sembra sempre più simile a certi che ci trasmetteva Kieslowski... Capire gli altri, per capire sé stessi. Il film del 'dopo', del quando l'irreparabile, l'inconcepibile è accaduto scava progressivamente nel significato non solo della professione, ma della psicologia del protagonista e di coloro che continuano a vivergli attorno. Il coraggio della lucidità, il rifiuto della consolazione, del determinismo facile (non basta 'crederci' per vincere una malattia grave).
LA STANZA DEL FIGLIO, diciamolo a questo punto, non è un film sulla morte. Ma sul ritorno alla vita. Sulla ricostruzione; non sulla distruzione operata dalla morte. Il cinema nitido di Nanni Moretti, cosi lontano da ogni calcolo estetico e quindi culturale traduce allora perfettamente quella casualità del quotidiano che regge le nostre esistenze. È come se il film non potesse più avanzare drammaticamente, interrotto com'è da un ostacolo terribile, insormontabile: allora, non potendo più procedere, al film non rimane che dirigersi all'interno dei personaggi. In un autore celebre per le sue parole, è la forza del non-detto ad imporre il proprio spazio umano e poetico: LA STANZA DEL FIGLIO è un film che colpisce. Non un film che commuove, ad ogni costo. Che consola, senza essere consolatorio.
È la storia di un ritorno alla vita. In quello splendido viaggio finale dall'Adriatico al Tirreno ("da un mare all'altro", come dice Moretti "da quello della disperazione a quello della speranza"), in quei silenzi sulla nuova spiaggia, in quegli sguardi di sfuggita carichi di affetto, pudore ed intelligenza c'è tutta la conclusione di un viaggio che si e compiuto nel silenzio delle distese più intime e recondite dello spettatore. Di un sostegno, più che di un film. Più che del significato e del ruolo che siamo soliti assegnare ad un film.
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We already know everything about LA STANZA DEL FIGLIO, partly because the film has been circulating in Italy for some time. Or we think we know everything; because the disreputable habit of telling about everything and everyone means that we now arrive in front of the screens without a minimum of willingness. Not so much to indulge our emotions; but to preserve the possibility of looking inside ourselves for a moment.
The latest, this time truly new Moretti begins in a way that might as well be the usual: with the beloved Nanni jogging; and he sets his ironic, affectionate and detached gaze on the orange people parading with hara krishna bells. But, we realise at once, it is not the usual 'morettitudine' that we are dealing with: the sittings with our psychoanalyst (it's been a lifetime, Moretti says, that I've wanted to cross over to the other side...) are not so much for laughs. But to deepen, to delineate, the characters, the environment, the psychologies. It is a light, explanatory first part, the one dedicated to the presentation of the cheerfully petit-bourgeois family (some say far too much) that is at the centre of the film: like a small, nonchalant existential fan that opens wide in its normality. And those little touches of humour, deliciously delicate, exploit what is expected of him, serve to get across a message that seems more and more like the ones Kieslowski gave us To understand others, in order to understand oneself. The film of the 'after', of when the irreparable, the inconceivable has happened gradually delves into the meaning not only of the profession, but of the psychology of the protagonist and those who continue to live around him. The courage of lucidity, the refusal of consolation, of easy determinism (it is not enough to 'believe' to overcome a serious illness).
THE SON'S ROOM, let us say at this point, is not a film about death. But on the return to life. On reconstruction; not on the destruction wrought by death. Nanni Moretti's sharp cinema, so far removed from any aesthetic and therefore cultural calculation, then perfectly translates that randomness of the everyday that holds our existences together. It is as if the film could no longer advance dramatically, interrupted as it is by a terrible, insurmountable obstacle: then, unable to proceed any further, the film has no choice but to direct itself within the characters. In an author famous for his words, it is the power of the unspoken that imposes its human and poetic space: THE SON'S ROOM is a striking film. Not a film that moves, at all costs. That consoles, without being consoling.
It is the story of a return to life. In that splendid final voyage from the Adriatic to the Tyrrhenian ("from one sea to another", as Moretti says "from that of despair to that of hope"), in those silences on the new beach, in those fleeting glances full of affection, modesty and intelligence, there is all the conclusion of a journey that took place in the silence of the spectator's most intimate and innermost stretches. Of a support, more than of a film. More than the meaning and role we usually assign to a film.
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