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PRÊT-À-PORTER
(PRÊT-À-PORTER - READY TO WEAR)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 31 marzo 1995
 
di Robert Altman, con Anouk Aimée, Marcello Mastroianni, Sofia Loren, Kim Basinger, Lauren Bacall, Tim Robbins, Julia Roberts (Stati Uniti - Francia, 1994)
 
Come già aveva fatto con la Hollywood di THE PLAYER (1992), Robert Altman convoca il gratin spesso indigesto di un mondo dalla facciata luccicante come quello dei creatori e delle sfilate di moda per prendersi una delle sue tipiche rivincite. Se quella con i suoi vecchi amici-nemici della Mecca del cinema risultò memorabile, questa con le redattrici invidiose di Vogue o di Elle, con gli stilisti spesso (to', che scoperta) omosessuali o fatui, le top che fanno tanto discutere se sono sexy o scheletriche finisce in una bolla (certo, professionalmente rilucente) di sapone.

Come sempre, l'autore di NASHVILLE organizza abilmente un mosaico di personaggi e di situazioni per organizzarlo, e ricondurlo in un medesimo disegno. Ma sorprendentemente - poiché che si tratti di uno dei geni del cinema americano del dopoguerra non vi è dubbio...- non riescono i personaggi e nemmeno il mosaico. Manca, rispetto alle opere precedenti, un'idea forte (il produttore di THE PLAYER che, minacciato di morte da un autore respinto, lo insegue, lo uccide, si mette con la sua donna, prima di accorgersi che a perseguitarlo era un altro), dei personaggi emblematici nei confronti dei quali ha un senso sfogare il proprio risentimento, delle psicologie interessanti da sviscerare, colpevolizzare o ammirare.

Le storielle di Prêt-à-porter (un vago omicidio che non è tale, uno strip della diva matura nei confronti dell'anziano latin lover, due giornalisti seducenti che si ritrovano rinchiusi senza bagagli in una stanza d'albergo, gli intrighi fra gli stilisti o la ribellione di una presentatrice televisiva che decide di piantare il tutto) non possono interessare lo spettatore o, ciò che è più grave e sorprendente, l'autore stesso. Ragione per cui nemmeno la struttura espressiva (solitamente fortissima ed affascinante nell'organizzazione delle sequenze, dei suoni: fino a costituire un vero e proprio film-nel-film, uno scheletro che si aggiunge prepotentemente all'apparenza esterna) s'impone al di là di uno sperimentato mestiere.

Ma il cinema di Altman era sublime in quanto non solamente abile: ma perché si attaccava - demolendoli, e provocando così quella fastidiosa impossibilità di identificazione che si traduceva spesso in mancanza di successo commerciale) - ai miti che avevano fatto grande l'America. Qui, questo cinema, non può che essere spuntato: la modestia dei miti ai quali si rivolge non sfugge a nessuno. E finisce per investire della propria futilità il film stesso.


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